Zuppa di farro, verza, fagioli e patate

Oggi voglio parlarvi di una ricetta che ho provato personalmente trovandola fantastica!
Si tratta di una zuppa gustosissima che potrà riscaldare le nostre cene autunnali portando gusto, ma anche salute in tavola. Va benissimo come piatto unico, anche per chi sta seguendo una dieta dimagrante in quanto si tratta di un piatto completo, saziante e, ve lo garantisco, anche soddisfacente per il palato! Chi l'ha detto infatti che per dimagrire bisogna mangiare solo piatti tristi, banali e anonimi?
Seguiti allora nella ricetta e non ve ne pentirete.

Partiamo con gli ingredienti per 4 persone:
Verza 250 g
Patate 250 g
Fagioli secchi 120 g
Farro 200 g
Pomodori pelati 1
Brodo vegetale circa 2 l
Cipolla 1 pz
Sedano 1 pz
Carota 1 pz
Olio extravergine di oliva 3 cucchiai
Sale q. b.
Pepe q.b.
Alloro 1 foglia

Prima di tutto vi consiglio di cuocere i fagioli (precedentemente ammollati per una notte) in acqua con uno spicchio di aglio, una costa di sedano, prezzemolo e una foglia di alloro. Per ridurre i tempi potete anche utilizzare la pentola a pressione (in questo caso considerate 1 h di cottura anziché 2 h).
Quando i fagioli saranno cotti, frullateli con l'aiuto di un mixer.
A questo punto mettete in una pentola i 3 cucchiai di olio, il sedano, la carota e la cipolla tritati e rosolate, dopodiché aggiungete i fagioli frullati e il pomodoro, facendo insaporire. Procedete aggiungendo il farro, mescolando e versando circa metà del brodo vegetale. Coprite con un coperchio e lasciate cuocere per 20-25 minuti.
Trascorso il tempo necessario, aggiungete alla preparazione la verza sminuzzata e le patate tagliate a tocchetti. Aggiustate di sale e di pepe e cuocete per 15-20 minuti a fuoco medio-basso insieme ad una foglia di alloro.
Durante la cottura, di tanto in tanto mescolate e controllate che la zuppa non diventi troppo asciutta, se necessario quindi aggiungete altro brodo. La consistenza dovrà essere densa, ma non troppo!
Servita la zuppa ben calda.
Essendo un piatto completo e saziante potete consumarlo come piatto unico o accompagnandolo a un contorno di verdure o a un frutto.
L'apporto calorico è di circa 390 kcal per porzione, quindi si presta a costituire un pasto anche per chi segue una dieta ipocalorica equilibrata. In esso troviamo infatti tutti i macronutrienti necessari: carboidrati dal farro e dalle patate, proteine vegetali dai fagioli, e grassi monoinsaturi dall'olio extravergine di oliva. Da sottolineare anche l'apporto di vitamine, antiossidanti e sostanze antitumorali da parte della verza. Visto l'alto contenuto di fibre, la ricetta è adatta anche per i diabetici.
Non vi resta che provarla!



Maggior rischio di insufficienza cardiaca per le donne che seguono una dieta ad alto contenuto di proteine


Quasi quotidianamente siamo bombardati da messaggi pubblicitari che promettono risultati miracolosi seguendo diete ricche di proteine in quanto aumentano il metabolismo e favoriscono la perdita di peso.
Gli effetti pericolosi per la salute di questi regimi alimentari sono decisamente noti, ma nonostante questo c'è ancora chi preferisce seguire delle scorciatoie o affidarsi a figure non professionali per ottenere risultati nel minor tempo possibile, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Circa un anno fa lo IARC, cioè l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, metteva in guardia dal consumo eccessivo di proteine di origine animale in quanto associate a una maggiore probabilità di sviluppare il cancro. Gli studi scientifici che lo dimostrano sono innumerevoli, così come quelli che indicano un maggior rischio di malattie cardiovascolari per chi assume elevate quantità di alimenti di origine animale. Questi infatti sono ricchi di grassi insaturi e di colesterolo che hanno conseguenze dannose per la salute.
Uno studio recente suggerisce che per le donne anziane una dieta ricca di proteine ​​può essere particolarmente pericolosa aumentando il rischio di insufficienza cardiaca, soprattutto se la maggior parte delle proteine assunte con la dieta proviene dalla carne.
L'insufficienza cardiaca si verifica quando il cuore non è più in grado di pompare sangue a sufficienza per supportare gli altri organi.
Ormai è noto che una dieta ricca di grassi, colesterolo e sodio aumenta il rischio di insufficienza cardiaca, ma secondo lo studio condotto dal Dr. Mohamad Firas Barbour e colleghi del Brown University Memorial Hospital di Rhode Island, una dieta ricca di proteine può essere altrettanto dannosa. I risultati di questa ricerca sono stati presentati recentemente all'American Heart Association Scientific Sessions 2016, tenutosi a New Orleans, LA.
I ricercatori sono giunti alle loro conclusioni analizzando i dati di 103.878 donne di età compresa tra 50-79 anni in post-menopausa che facevano parte dell' iniziativa di salute delle donne (Women's Health Initiative).
Come parte dello studio, le partecipanti hanno compilato un questionario di frequenza alimentare che riportava la loro assunzione giornaliera di circa 125 diversi prodotti alimentari tra il 1993 e il 1998. I ricercatori hanno esaminato l'apporto proteico giornaliero totale dei soggetti, così come la quantità di proteine provenienti da fonti animali e vegetali.
Dal momento che i dati dietetici provenienti dai questionari potevano essere imprecisi, sono stati valutati anche dei biomarcatori per ottenere un'indicazione più affidabile sull'assunzione di proteine ​​da parte delle partecipanti. 
All'epoca dello studio, nessuna donna era affetta da insufficienza cardiaca e lo sviluppo di questa patologia è stato monitorato fino al 2005.
I risultati della ricerca indicano che 1.711 donne partecipanti allo studio hanno sviluppato insufficienza cardiaca.
Rispetto alle donne che hanno assunto bassi livelli di proteine, coloro che hanno avuto un apporto totale di proteine ​​più elevato sono risultate essere molto più a rischio di insufficienza cardiaca. Il rischio inoltre era maggiore tra le donne che avevano assunto la maggior parte delle proteine ​​dalla carne.

Sebbene questi risultati debbano essere interpretati con cautela e siano necessarie ulteriori ricerche, tuttavia rafforzano le evidenze che suggeriscono di moderare il consumo di proteine animali, sostituendole con quelle vegetali (contenute per esempio nei legumi), per ridurre il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari e tumorali.

La mela con i semi


Anche se non è più estate, ma desiderate lo stesso una bevanda dissetante e un'alternativa alla classica spremuta d'arancia perché non provare il succo di melagrana? Parliamo del frutto dell'albero melograno, tipico proprio di questo periodo (settembre-novembre), ma non sempre facilmente reperibile. Uno dei motivi del suo scarso consumo è il fatto che spesso non si sa come utilizzarlo. Prepararne il succo è in realtà piuttosto semplice essendo lo stesso procedimento che si utilizza per le spremute d'arancia. Se invece abbiamo voglia e fantasia di sperimentare nuovi piatti e ricette possiamo utilizzare i semi della melagrana per completare insalate di verdure e/o cereali!
Oltre ad essere dissetante, questo frutto è utile per prevenire e combattere i malanni di stagione, grazie al contenuto in vitamina C, ed è un'ottima fonte di antiossidanti come polifenoli, tannini e antocianine.
Chi segue una dieta ipocalorica non deve preoccuparsi perché 100 g di semi di melagrana apportano circa 63 kcal.
Essendo ricca di acqua e sali minerali, la melagrana rappresenta un valido aiuto per depurare l'organismo e per reintegrare le perdite di liquidi dopo l'attività sportiva.
Visto che sarà reperibile ancora per poco, io ne approfitto con un bel succo! E voi invece come lo preferite?


La vitamina del sole


La vitamina D, nota anche come vitamina del sole, può essere prodotta dal nostro organismo in seguito all'esposizione solare oppure può essere assunta con alimenti o integratori.
Nonostante il nome, la vitamina D è considerata un pro-ormone e non una vitamina. Questo perché il corpo è in grado di produrre vitamina D attraverso l'azione della luce solare sulla pelle, mentre le vitamine sono nutrienti che non possono essere sintetizzati dall'organismo e devono essere acquisite attraverso la dieta o integratori.

Si stima che l'esposizione della pelle al sole per 5-10 minuti 2-3 volte alla settimana permetta all'organismo di produrre sufficiente vitamina D. Questa però ha un'emivita di solo due settimane, il che significa che le riserve nell'organismo possono diminuire significativamente, soprattutto in inverno. Recenti studi hanno suggerito che fino al 50% di adulti e bambini in tutto il mondo sono carenti di vitamina D. La carenza di vitamina D è comune soprattutto negli anziani, neonati, persone con la pelle scura e persone che vivono a latitudini più alte o che si espongono poco alla luce solare. Anche l'uso creme solari può diminuire in modo significativo la capacità del corpo di assorbire la radiazione ultravioletta B (UVB)  necessaria per la produzione di vitamina D. Una crema solare con fattore di protezione solare (SPF) 30 può ridurre la capacità del corpo di sintetizzare la vitamina del 95%

In condizioni di normale esposizione. la vitamina D viene prodotta quando la luce solare a livello della cute converte il colesterolo in calciolo (vitamina D3). La vitamina D3 viene poi trasformata in calcidiolo (25-idrossivitamina D3) nel fegato. I reni infine convertono il calcidiolo nella forma attiva della vitamina D, chiamata calcitriolo (1,25-idrossivitamina D3). Pertanto, le statine e altri farmaci o integratori che inibiscono la sintesi del colesterolo o alterano funzionalità epatica o renale possono compromettere la sintesi di vitamina D.

Un adeguato apporto di vitamina D è importante per la regolazione del calcio e l'assorbimento del fosforo, per il mantenimento di ossa e denti sani, per la salute del sistema immunitario, del cervello e del sistema nervoso, per la regolazione dei livelli di insulina, per supportare la funzione polmonare e la salute cardiovascolare e anche per influenzare l'espressione di geni coinvolti nello sviluppo del cancro. Alcuni studi infatti hanno suggerito che il calcitriolo (forma ormonalmente attiva della vitamina D) è in grado di ridurre la progressione del cancro rallentando la crescita e lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni nel tessuto canceroso, aumentando la morte delle cellule tumorali e riducendo la proliferazione cellulare e metastasi.
Mantenere livelli adeguati di vitamina D è fondamentale anche durante la gravidanza. Le donne incinte che sono carenti di vitamina D sembrano infatti essere a maggior rischio di sviluppare preeclampsia. Inoltre, bassi livelli di vitamina D sono associati a diabete mellito gestazionale e vaginosi batterica nelle donne in gravidanza. Diversamente, livelli troppi elevati di vitamina D durante la gravidanza sono stati associati a un aumento di allergia alimentare del bambino durante i primi due anni di vita.
Negli adulti, la carenza di vitamina D si manifesta come osteomalacia e osteoporosi. L'osteomalacia è caratterizzata da scarsa densità ossea, debolezza muscolare e spesso causa piccole pseudo fratture della colonna vertebrale, del femore e dell'omero. L'osteoporosi invece è la malattia delle ossa più comune tra le donne in post-menopausa e gli uomini più anziani, nella quale si manifesta sia demineralizzazione che alterazione della struttura delle ossa.

L'assunzione raccomandata di vitamina D suddivisa per fasce d'età è la seguente:
I bambini 0-12 mesi: 10 mcg
Bambini 1-18 anni: 15 mcg
Adulti fino ai 74 anni: 15 mcg
Adulti oltre i 74 anni: 20 mcg
Donne in gravidanza o in allattamento: 15 mcg.

I soggetti a rischio di carenza dovrebbero aumentare l'assunzione di vitamina D privilegiando quella da fonti alimentari. Infatti, sebbene siano disponibili supplementi di vitamina D è sempre preferibile assumere qualsiasi vitamina o minerale attraverso fonti naturali. È stato dimostrato che le forme isolate, contenute nei supplementi o negli integratori, non forniscono gli stessi benefici per la salute come le sostanze nutrienti provenienti da un alimento completo. Non è infatti la singola vitamina o minerale a rendere alcuni alimenti una parte importante della nostra dieta, ma la sinergia che degli alimenti e dei nutrienti che lavorano insieme e che consentono un maggiore assorbimento. Ad esempio, la vitamina D è liposolubile, il che significa che il suo assorbimento richiede grassi alimentari. Inoltre, è necessario magnesio per convertire la vitamina D nella sua forma attiva.
Pertanto, gli alimenti che possiamo consumare per aumentare l'assunzione di vitamina D sono senza dubbio l'olio di fegato di merluzzo, i pesci grassi (salmone, tonno, sgombro, aringa), il tuorlo d'uovo e il fegato.

I rischi derivanti da un'intossicazione di vitamina D si manifestano con dosaggi 10 volte superiori ai livelli raccomandati con mal di testa, nausea, perdita di appetito, ipercalcemia e calcificazione dei tessuti molli.
Come per gli altri nutrienti è importante quindi ricordare che è il nostro stile alimentare generale ad essere importante nella prevenzione delle malattie e nel raggiungimento di un buono stato di salute, e non un singolo alimento. Meglio quindi seguire una dieta varia piuttosto che concentrarsi su un singolo nutriente come la chiave per il benessere.

Dott.ssa Chiara Ferretti
PhD, Biologa Nutrizionista

Il melone: uno dei frutti più amati dell'estate!


Finalmente insieme al caldo è arrivato sulle nostre tavole uno dei frutti più amati dell'estate, il melone! Questo frutto è originario dell'Asia e si è poi diffuso nel Mediterraneo passando per l'India e per la Cina.
Perfetto per la stagione calda, grazie all'elevato contenuto d'acqua e all'effetto diuretico, il melone è anche ricco di vitamina C e potassio.
Come tutti i frutti e vegetali giallo-arancioni è privilegiato dagli amanti dell'abbronzatura che cercano appunto di esaltarla. Questa proprietà del melone è dovuta al contenuto di carotenoidi, tra cui il beta-carotene, precursore della vitamina A che protegge la pelle dai raggi solari e favorisce l'abbronzatura.
L'azione del beta-carotene è infatti di tipo antiossidante e contribuisce a difendere la pelle dagli effetti dei radicali liberi, tra cui anche l'invecchiamento cellulare.
Un beneficio forse poco conosciuto del melone è quello lassativo essendo ricco di fibra. Ottimo quindi per combattere la stipsi in modo naturale!
Da consumare come spuntino o a fine pasto, il melone è ottimo anche nella gettonatissima versione con il prosciutto, ma in questo caso, accompagnato da pane integrale, va considerato un vero e proprio pasto.
Per sfruttare tutte le proprietà di questo gustoso frutto è fondamentale consumarlo fresco, quindi attenzione alle modalità di conservazione: 1-2 gg a temperatura ambiente o 3-5 gg in frigorifero.

Zucchero integrale: quale scegliere?


Una delle domande che mi vengono poste più spesso è quella sul tipo di zucchero da utilizzare: bianco o di canna?
Si è portati a credere lo zucchero di canna sia meno raffinato e calorico rispetto allo zucchero bianco, ma non è così!
Come suggerisce il nome, lo zucchero di canna viene prodotto a partire dalla canna da zucchero, mentre quello bianco deriva o dalla barbabietola o dalla canna. Entrambi contengono saccarosio, apportano la stessa quantità di calorie e sono pressoché privi di sostanze nutritive. Da un punto di vista nutrizionale quindi, consumare zucchero bianco o di canna è assolutamente equivalente.
Lo zucchero di canna infatti, diversamente da quello che si pensa, non è uno zucchero integrale, ma viene sottoposto anch'esso a processi di raffinazione.
Gli zuccheri di canna veramente integrali sono il panela e il muscovado (o mascobado), purtroppo poco conosciuti e pochi diffusi in Italia.
Il panela è prodotto in America Latina e viene estratto dalla canna da zucchero con un processo esclusivamente manuale, gestito spesso a livello familiare. Il succo della canna viene portato a ebollizione ed evaporazione per ottenere una melassa che successivamente raffreddandosi cristallizza.
Il muscovado invece è un prodotto tipico delle Filippine, più scuro, granuloso e appiccicoso rispetto agli altri zuccheri di canna grazie alla maggiore presenza di melassa.
Mentre il panela ha un aroma che ricorda il miele, il muscovado ha uno spiccato retrogusto di liquirizia, ma entrambi contengono vitamine e sali minerali (fosforo, potassio, calcio, magnesio, ferro) presenti nella melassa che viene invece rimossa nei prodotti raffinati.
Ridurre al minimo il consumo di zucchero rimane la raccomandazione principale per evitare sovrappeso e diabete, ma se proprio non possiamo farne a meno, meglio scegliere una tipologia non raffinata come appunto il panela e il muscovado.

Surimi? No grazie!


Il surimi sembra un prodotto fresco, veloce e leggero, ottimo per piatti semplici ma invitanti. Quanti sanno però cosa contiene veramente?
Nasce come prodotto legato alla tradizione giapponese e qui in Italia originariamente veniva ottenuto dall'utilizzo del merluzzo Alaska pollack, mentre ora entrano nella preparazione varie tipologie di pesce dalla difficile identificazione, come suri, carpa asiatica e sgombro di Atka.
Le difficoltà nell'identificazione sono legate al fatto che nel surimi vengono impiegati scarti e ritagli di pesce che poi vengono triturati, compressi e addizionati con altre sostanze e aromi.
Nell'immaginario collettivo questo prodotto è costituito da polpa di granchio, ma di questo non ce ne è praticamente neanche l'ombra. Sono la forma data alla carne di pesce macinata e le sostanze additive che fanno volutamente assomigliare il surimi alla polpa di granchio. 
In percentuale, nel prodotto finito, il pesce (o meglio gli scarti del pesce) è presente al 30-40%, per il resto troviamo fecola di patate o altri farinacei, olio di colza o di palma, albume d'uovo, spezie e aromi vari, glutammato monosodico ed altri esaltatori di sapidità. Il contenuto di proteine risulta anche piuttosto basso, intorno al 7%.
Meglio quindi un'insalata di mare con prodotti freschi o pesce azzurro, sicuramente più sano, più nutriente ed anche più economico!

Le lacrime di Venere ovvero...le fragole!


Eccoci arrivati alla stagione primaverile che ci regala uno dei frutti che insieme a quelli estivi sono sicuramente tra i più apprezzati, le fragole!
Questi piccoli frutti, dolci, ma mai stucchevoli, e leggermente aciduli, erano molto amati anche dagli antichi Romani. Venivano consumate soprattutto durante le festività in onore del dio Adone e la leggenda narra che alla sua morte Venere pianse delle lacrime che cadendo in terra si trasformarono in piccoli cuori rossi, le fragole appunto! 
Dal punto di vista nutrizionale, bisogna notare l'elevato contenuto in vitamina C che aiuta l'organismo ad aumentare le difese immunitarie, a proteggere le pareti dei vasi sanguigni e a contrastare i radicali liberi. Essendo molto ricche di acqua, le fragole sono frutti diuretici e dissetanti. Contengono inoltre flavonoidi ad azione antiossidante che combattono l'invecchiamento cellulare. Tra i sali minerali, i più abbondanti sono il calcio e il potassio. Quest'ultimo regola l'equilibrio idrico insieme al sodio, interviene nella conduzione degli impulsi nervosi e nei processi di contrazione muscolare oltre a regolare la frequenza del battito cardiaco.
L'apporto energetico, comunque scarso, è dovuto principalmente al contenuto di zuccheri, principalmente al fruttosio. Nell'ambito di una dieta dimagrante, le fragole possono essere dunque consumate, sebbene in quantità moderate come avviene del resto per gli altri frutti.
Un aspetto da tenere in considerazione è che nei soggetti predisposti le fragole possono causare allergie od orticarie. Sono considerate infatti un alimento allergizzante e per questo nei bambini è consigliabile introdurle nell'alimentazione solo dopo i due anni di età scegliendo i frutti molto maturi.
Per preservare le proprietà nutrizionali le fragole devono essere consumate rapidamente dopo l'acquisto, entro 12 ore se conservate a temperatura ambiente e 2-3 giorni se tenute in frigorifero.
Per evitare la perdita di sali minerali, è bene staccare il picciolo solo dopo averle lavate e aver fatto scolare l'acqua.
Il mio consiglio è consumarle al termine dei pasti, al posto del dessert, o come un dolce e fresco spuntino!


La spesa di Aprile

Frutta e verdura, come sempre alleati della nostra salute!!
Vediamo insieme quali scegliere in questo mese per rispettare la stagionalità.

LA CANNELLA: UN PREZIOSO ALLEATO PER LA NOSTRA SALUTE

Ecco il mio ultimo articolo, uscito proprio oggi, su Medimagazine.
Buona lettura!

"La cannella è una spezia proveniente dagli alberi che appartengono al genere Cinnamomum, originario di Caraibi, Sud America e Sud-Est asiatico.
Esistono due specie principali di cannella: la cannella di Ceylon (Cinnamomum verum), spesso considerata la "vera cannella" e la cannella Cassia o cannella cinese (Cinnamomum aromaticum), che ha origine nella Cina meridionale ed è in genere meno costosa della cannella di Ceylon.
Poiché la cannella di Ceylon è molto costosa, la maggior parte dei prodotti alimentari negli Stati Uniti e in Europa occidentale utilizzano la più economica cannella Cassia. Attualmente la cannella è considerata la seconda spezia più popolare, dopo il pepe nero, negli Stati Uniti e in Europa.
Il consumo di cannella risale al 2000 a.C in Egitto, dove era molto apprezzata tanto da essere considerata quasi una panacea. Nel Medioevo i medici la utilizzavano a scopo terapeutico per il trattamento di tosse, artrite e mal di gola.
La ricerca moderna indica che la cannella può avere alcune proprietà benefiche per la salute, ma sono necessari ulteriori studi per poter attribuire in modo definitivo alla cannella tali proprietà.
Possibili benefici per la salute di cannella
Secondo la US National Library of Medicine, la cannella può essere utilizzata per contribuire a trattare spasmi muscolari, vomito, diarrea, infezioni, raffreddore, perdita di appetito e disfunzione erettile.
Infezioni fungine
Secondo il National Institutes of Health la cinnamaldeide, una sostanza chimica presente in cannella Cassia, potrebbe contribuire alla lotta contro le infezioni batteriche e fungine.
Diabete
La cannella può aiutare a migliorare i livelli di glucosio e lipidi nei pazienti con diabete di tipo 2, secondo uno studio pubblicato su Diabetics Care. Gli autori dello studio hanno concluso che consumare fino a 6 grammi di cannella al giorno riduce glicemia, trigliceridi, colesterolo LDL, colesterolo totale nelle persone con diabete di tipo 2 e che l'introduzione di questa spezia nella dieta di persone con diabete di tipo 2 riduce i fattori di rischio associati al diabete alle malattie cardiovascolari.
Il morbo di Alzheimer
I ricercatori dell'Università di Tel Aviv hanno scoperto che la cannella può aiutare a prevenire la malattia di Alzheimer. Secondo il Prof. Michael Ovadia, del Dipartimento di Zoologia dell'Università di Tel Aviv, un estratto trovato nella corteccia di cannella, chiamato CEppt, possiede proprietà che possono inibire lo sviluppo della malattia.
HIV
Uno studio di piante medicinali indiane ha rivelato che la cannella può potenzialmente essere efficace contro HIV. Secondo gli autori dello studio gli estratti più efficaci contro l'HIV-1 e HIV-2 sono rispettivamente Cinnamomum cassia (corteccia) e Cardiospermum helicacabum (germoglio e frutto).
Sclerosi multipla
La cannella può aiutare a fermare il processo distruttivo della sclerosi multipla (SM), secondo un neurologo del Rush University Medical Center. In base ai risultati dello studio la cannella potrebbe contribuire ad eliminare la necessità di prendere alcuni farmaci, tra l'altro costosi e poco piacevoli.
Ridurre gli effetti negativi di pasti ricchi di grassi
I ricercatori del Penn State hanno rivelato che diete ricche di cannella possono ridurre le risposte negative dell'organismo a pasti ricchi di grassi.
Trattamento e guarigione delle ferite croniche
Una ricerca pubblicata sulla rivista ACS Nano rivela che gli scienziati hanno trovato un modo per confezionare composti antimicrobici di menta piperita e cannella in piccole capsule che possono uccidere i biofilm e promuovere attivamente la guarigione."

Dott.ssa Chiara Ferretti

Fonti:
Cinnamon, Diabetes UK, 2009.
Cassia cinnamon, U.S. National Library of Medicine. U.S. Department of Health and Human Services National Institutes of Health. Accessed October 14th 2013.
Cinnamon Improves Glucose and Lipids of People With Type 2 Diabetes, Alam Khan,S, PHD, Mahpara Safdar, MS, Mohammad Muzaffar Ali Khan, MS, PHD, Khan Nawaz Khattak, MS and Richard A. Anderson, PHD., Diabetes Care, December 2003 vol. 26 no. 12 3215-3218.
A survey of some Indian medicinal plants for anti-human immunodeficiency virus (HIV) activity, Premanathan M, Rajendran S, Ramanathan T, Kathiresan K, Nakashima H, Yamamoto N., Indian J Med Res. 2000 Sep;112:73-7.


MIELE: BENEFICI E RISCHI PER LA SALUTE

Il Miele, non solo buono, ma anche salutare e benefico se consumato moderatamente.
Leggete cosa ho scritto per Medimagazine.


"Il miele è un alimento dolce elaborato dalle api utilizzando il nettare dei fiori. Le api convertono il nettare in miele attraverso un processo di rigurgito ed evaporazione, poi lo conservano come fonte di cibo primaria nei favi di cera all'interno dell'alveare. Il miele può quindi essere raccolto dagli alveari per il consumo umano.
Il miele viene classificato in base al colore. Generalmente quello ambra dorato chiaro spesso ha un prezzo di vendita al dettaglio più elevato rispetto alle varietà più scure. Il sapore del miele varia in base ai tipi di fiore da cui il nettare è stato raccolto.
In commercio sono disponibili sia miele crudo che pastorizzato. Il miele crudo viene rimosso dall'alveare e imbottigliato direttamente, e come tale conterrà tracce di lievito, cera e polline. Il miele pastorizzato viene invece riscaldato ed elaborato per rimuovere le impurità. Il consumo di miele crudo locale si ritiene utile per il trattamento delle allergie stagionali dovute a esposizione ripetuta al polline della zona.

COMPOSIZIONE NUTRIZIONALE DEL MIELE
Secondo il Database Nazionale di Nutrienti del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), un cucchiaio di miele (circa 21 grammi) contiene 64 calorie, 17,3 grammi di carboidrati (17,3 grammi di zucchero senza fibre), 0 grammi di grassi e 0 grammi di proteine. La quantità di vitamine e minerali è trascurabile.
Scegliere il miele rispetto allo zucchero risulta in un più graduale aumento dei livelli di zucchero nel sangue che si ritiene possa moderare la sensazione di fame. Il miele è noto anche per avere effetti antiossidanti, antimicrobici e lenitivi.

POSSIBILI BENEFICI

Sollievo dalla tosse
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e American Academy of Pediatrics raccomanda il miele come un rimedio alla tosse naturale.
Uno studio del 2007 del Penn State College of Medicine ha suggerito che il miele riduce la tosse notturna e determina una migliore qualità del sonno nei bambini con infezioni alle vie respiratorie più del destrometorfano, medicina utilizzata per il trattamento della tosse.

Sollievo dal bruciore di stomaco
Il miele può essere efficace nel trattamento della pirosi. In uno studio pubblicato dal British Medical Journal, i ricercatori hanno suggerito che questo può essere dovuto alla viscosità del miele che forma un rivestimento del tratto gastroesofageo superiore prevenendo la risalita degli acidi dello stomaco.
Agente antibatterico
Il miele contiene la proteina defensina-1, che ha capacità battericida. Il miele non pastorizzato può essere anche usato come agente topico per ferite, ma non dovrebbe essere usato al posto di un agente topico prescritto.

COME INCORPORARE PIÙ MIELE NELLA DIETA
Alcune strategie per aumentare il consumo di miele nella propria alimentazione:
  • utilizzare il miele per addolcire salse e marinature
  • sciogliere il miele nel caffè o nel tè
  • spalmare il miele su pane tostato o fette biscottate
  • mescolare il miele con yogurt, cereali, crusca d'avena
Se si vuole utilizzare il miele nella preparazione di dolci al posto dello zucchero, considerare che la cottura con il miele può causare eccesso di doratura e umidità. Come regola generale, utilizzare ¾ di tazza di miele per ogni tazza di zucchero, ridurre il liquido nella ricetta di 2 cucchiai e abbassare la temperatura del forno di circa 14 °C.

POTENZIALI RISCHI PER LA SALUTE
È la dieta complessiva e le abitudini alimentari generali che sono determinanti nella prevenzione delle malattie e per il raggiungimento di un buono stato di salute. È opportuno seguire una dieta varia piuttosto che concentrarsi su singoli alimenti come chiave per il benessere.
Il miele oltretutto è una forma di zucchero e pertanto l'assunzione dovrebbe essere moderata. L'American Heart Association raccomanda che le donne dovrebbero ottenere non più di 100 calorie al giorno da zuccheri aggiunti, gli uomini non più di 150 calorie al giorno. Questo corrisponde a poco più di 2 cucchiai per le donne e 3 cucchiai per gli uomini.
Un rischio per la salute può essere costituito dal fatto che il miele può contenere endospore botuliniche che causano il botulismo infantile, un tipo raro ma grave di intossicazione alimentare che può portare a paralisi. Anche il miele pastorizzato potrebbe contenere queste spore. Per tale ragione si raccomanda il consumo di miele solo a bambini di età superiore a 1 anno."
Dott.ssa Chiara Ferretti

L'OLIO DI PALMA FA BENE O FA MALE?

Il mio parere sull'olio di palma per Medimagazine.


"L'olio di palma è il tipo di olio vegetale maggiormente prodotto, con una produzione annuale di oltre 50 tonnellate. Di queste, circa l'85 % è destinato al consumo alimentare.
Grazie alla sua versatilità e al costo contenuto, viene impiegato in moltissimi prodotti commerciali, dalla margarine a prodotti da forno quali biscotti, cracker, fette biscottate, merendine e tanti altri.
I maggiori produttori di olio di palma sono Malesia e Indonesia, responsabili dell'86 % della produzione mondiale, mentre il resto dipende per lo più da Thailandia, Nigeria, Costa d'Avorio, Colombia, Papua Guinea, India e Brasile.
Di recente è nato un acceso dibattito seguito da molte polemiche legate all'impiego di olio di palma. Da un punto di vista ecologico, i paesi produttori vengono accusati di distruggere le foreste tropicali per far spazio alle coltivazioni della palma da olio. Dal punto di vista nutrizionale, le perplessità nascono dal fatto che diversi studi hanno suggerito un ruolo dell'olio di palma nell'aumento del rischio legato allo sviluppo di malattie cardiovascolari, mentre altri gli attribuiscono un effetto benefico sulla salute.
Ma come orientarsi quindi tra le informazioni contrastanti? Cerchiamo di fare un po' di chiarezza.
L'olio di palma viene utilizzato da migliaia di anni in diverse comunità in Asia e Africa. La palma da olio, Elaeis Guineensis, infatti è originaria dell'Africa Occidentale dalla quale si è propagata in Malesia, Brasile e Indonesia nel XIX secolo.
Il processo di estrazione dell'olio di palma fornisce un prodotto contenente sia composti benefici come trigliceridi, vitamina E, carotenoidi e fitosteroli, sia impurità come fosfolipidi, acidi grassi liberi (FFA), gomme e prodotti di ossidazione lipidica, questi ultimi rimossi dai trattamenti di raffinazione. L'olio di palma di buona qualità destinato all'uso alimentare è composto al 95 % da trigliceridi e allo 0,5 % da FFA. In particolare, gli acidi grassi liberi presenti nell'olio di palma sono per circa il 50 % acidi grassi saturi, e più precisamente acido miristico (1,1%), acido stearico (4,5 %) e acido palmitico (44 %). Poiché i grassi saturi sono associati all'incremento dei livelli di colesterolo LDL nel sangue che accumulandosi nelle arterie può promuovere l'inizio del processo aterogenico, una parte della comunità scientifica si è espressa contro il consumo dell'olio di palma a causa dell'elevato contenuto di acido palmitico. Un'altra parte sottolinea invece la discreta presenza di acidi grassi insaturi, come l'acido oleico al 39,2 % e l'acido linoleico al 10,1 % nonché il contenuto di vitamina A, vitamina E e antiossidanti che svolgono funzione protettiva per il cuore e preventiva nei confronti del cancro. Bisogna osservare però che il processo di raffinazione dell'olio di palma provoca una perdita della quota di tocoferolo e tocotrienoli e inoltre induce danno ossidativo.
Nell'uomo sono stati riportati risultati contrastanti per quanto riguarda gli effetti mediati da diete ricche di olio di palma sull'aumento del rischio cardiovascolare. Le principali criticità sono rappresentate dall''estrema eterogeneità qualitativa e quantitativa del contenuto di acidi grassi nelle diete; dalle differenze dei criteri di selezione utilizzati per i gruppi sottoposti alle sperimentazioni; dall'ampia gamma di età esaminate e dalla scarsa attenzione nei confronti delle altre componenti dietetiche che possono mascherare gli effetti diretti degli acidi grassi sui marcatori dei lipidi nel sangue.
Nell'attesa che ulteriori ricerche superino questi punti critici per chiarire in modo equivoco il rapporto diretto tra consumo di olio di palma e rischio cardiovascolare, è opportuno affidarsi al buon senso e non farsi prendere da inutili allarmismi. Se da un lato è vero che l'elevato contenuto di acidi grassi saturi è potenzialmente dannoso per la saluta umana, dall'altro lato le linee guida raccomandano un consumo di grassi saturi inferiore al 10 % delle calorie totali della dieta. Ciò significa che l'utilizzo occasionale di prodotti contenenti olio di palma all'interno di un regime alimentare bilanciato non rappresenta una minaccia per la nostra salute. Al contrario, il consumo quotidiano prevalente di prodotti industriali rispetto ad alimenti naturali, nel contesto di una dieta ricca di grassi animali e povera di fibre, non rappresenta uno stile di vita sano ed espone l'organismo a un maggiore rischio di sviluppare patologie a carico dell'apparato cardiocircolatorio e malattie neoplastiche."
Dott.ssa Chiara Ferretti

Fonti:
Palm oil and the hearth: a rewiev, Odia O. J., Ofori S., Maduka O., Word J Cardiol 2015 March 26; 7(3): 144-149

Biological and nutritional properties of palm oil and palmitic acid: effects on health, A. Mancini, E. Imperlini, E. Nigro, C. Montagnese, A. Daniele, S. Orrù, P. Buono, Molecules 2015, 20, 17339-17361

ALIMENTI CHE INFLUENZANO L'ASSORBIMENTO DEL FERRO: QUAL È IL RUOLO DELLA SOIA?

Un altro mio articolo che potete trovare su Medimagazine.
"Tra tutte la carenze di micronutrienti, quella che riguarda il ferro è sicuramente la più diffusa. Sebbene abbia una maggiore incidenza nei paesi in via di sviluppo, l'anemia da carenza di ferro colpisce 1,62 miliardi di persone in tutto il mondo. Le cause di tale diffusione sono attribuibili a malnutrizione, infezioni o diete povere di ferro. Vista la grande incidenza, numerosi studi sono stati effettuati per chiarire i meccanismi di assorbimento del ferro e i fattori che lo influenzano.
Per l'uomo le fonti principali di ferro sono rappresentate dalla dieta, che fornisce tale minerale in due forme diverse. Gli alimenti di origine animale forniscono infatti il cosiddetto ferro eme, componente essenziale di emoglobina e mioglobina, mentre gli alimenti di origine vegetale contengono il ferro non eme. Entrambe le forme differiscono non solo dal punto di vista chimico, ma anche per il processo di assorbimento. Il ferro eme viene infatti assorbito in modo molto efficiente ed ha un'elevata biodisponibilità, mentre l'assorbimento del ferro non eme è influenzato da diversi fattori che possono facilitarlo o inibirlo, modulandone la disponibilità per l'organismo.
Grazie alla numerosità delle ricerche effettuate, è noto che sostanze come i fitati, l'acido ossalico e i polifenoli formano con il ferro non eme complessi insolubili nell'intestino riducendone l'assorbimento, mentre un effetto opposto è svolto dalla vitamina C.
Per quanto riguarda l'azione delle proteine rispetto ai meccanismi di assorbimento del ferro occorre fare una distinzione in base alla fonte proteica considerata. Si è osservato infatti che proteine di origine animale aumentano l'assorbimento delle ferro non eme, mentre quelle vegetali lo riducono. Allo stesso modo le proteine animali sono in grado di migliorare ulteriormente l'assorbimento del ferro eme, mentre sono pochi gli studi che hanno indagato l'effetto da parte delle proteine di origine vegetale.
Per chiarire questo aspetto, un recente studio, condotto da Weinborn e colleghi, ha esaminato i livelli di ferro eme nel sangue di 30 donne tra i 35 e i 45 anni, dopo assunzione del minerale con o senza concentrati di proteine estratte da cereali (zeina, gliadina e glutenina) e legumi. I risultati della ricerca hanno evidenziato che l'assunzione basale di ferro eme corrisponde al 6,2%. Tale valore aumenta leggermente con l'assunzione di zeina e gliadina, mentre si riduce in presenza di glutenina, sebbene in ogni caso non significativamente. Prendendo in esame l'effetto di proteine estratte dai legumi, emerge che quelle derivate da piselli e lenticchie non influenzano l'assorbimento di ferro eme, mentre le proteine della soia diminuiscono l'assorbimento del 34 %. Nell'interpretazione di questo risultato, in aggiunta all'azione inibitoria della soia, è importante considerare che l'esperimento è stato condotto con ferro eme senza la globina, che notoriamente induce un incremento nell'assorbimento del ferro.
Nel mondo scientifico comunque esiste un ampio consenso riguardo al fatto che la soia, e i prodotti derivati, sono fonti alimentari povere di ferro e riducono l'assorbimento del ferro non eme. Inoltre, i risultati osservati dagli autori sono consistenti con quelli di un altro studio in cui è stato dimostrato che, sostituendo metà della carne contenuta in un hamburger con della soia, la quantità totale di ferro assorbita, compreso il ferro eme, è molto inferiore. Solamente aggiungendo ferro eme all'hamburger fatto per metà di carne e per metà di soia, si ottiene assorbimento di ferro paragonabile a quello degli hamburger di sola carne.
Sicuramente sono necessarie altre ricerche per chiarire il meccanismo di inibizione da parte delle proteine della soia sull'assorbimento del ferro eme, visto l'impiego diffuso di questo legume come legante o agente gelificante per migliorare le preparazioni, e come una alternativa economica alla carne.
Inoltre è importante considerare che lo studio di Weinborn e colleghi ha rilevanza su ferro eme purificato, non su emoglobina da fonti alimentari. Pertanto è indispensabile indagare gli effetti di potenziali fattori dietetici sull'assorbimento del ferro eme per fornire strategie utili a contrastare l'anemia da carenza di ferro."
Dott.ssa Chiara Ferretti

Fonti:
The Effect of Plant Proteins Derived from Cereals and Legumes on Heme Iron Absorption, V. Weinborn, F. Pizzarro, M. Olivares, A. Brito, M. Arredondo, S. Flores, C. Valenzuela, Nutrients 2015,7(11), 8977-8986




PROBIOTICI PER LA GESTIONE DELL'OBESITÀ

È da poco nata una nuova collaborazione con Medimagazine, magazine che tratta di salute, medicina e bellezza, per il quale do il mio contributo con articoli sulla rubrica di Alimentazione e Benessere.
Eccone uno che potete leggere anche cliccando qui.

"Negli ultimi anni è stato evidenziato un ruolo della flora batterica intestinale nella patofisiologia dell'obesità. In condizioni normali il tubo digerente è abitato da miliardi di microrganismi che svolgono svariate funzioni benefiche per il corpo umano e che vengono definiti oltre che come flora batterica intestinale, anche come microbiota. Alterazioni nella composizione del microbiota sono stai associati a vari disordini metabolici, come obesità e diabete di tipo 2. Per quanto riguarda l'obesità, la massiccia espansione patologica del tessuto adiposo che si verifica è correlata a uno stato infiammatorio che si riflette in una maggiore produzione di citochine, chemochine e acidi grassi pro-infiammatori. Questo provoca uno squilibrio tra fattori pro e anti-infiammatori prodotti da parte dei leucociti, promuovendo ulteriormente l'infiammazione e la disfunzione del tessuto adiposo.
Alterazioni della flora intestinale possono danneggiare la funzione barriera determinando il passaggio di sostanze che provocano l'infiammazione del tessuto. Sulla base di queste considerazioni, ricerche condotte nell'ultimo decennio hanno ipotizzato che il microbiota intestinale possa avere un ruolo nello sviluppo della sindrome metabolica, una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di vari fattori di rischio quali obesità, ipertrigliceridemia, riduzione del rapporto tra colesterolo HDL e colesterolo LDL, ipertensione, iperglicemia a digiuno e insulino-resistenza. Recentemente è stato supposto che alcuni aspetti della sindrome metabolica abbiano origine da cambiamenti nella flora intestinale e nella sua funzione di barriera.
La varietà e il numero di microrganismi che costituiscono la flora intestinale sono determinate sia dal background genetico che dallo stile di vita, come ad esempio la dieta. Ogni individuo ha un proprio “corredo” di microrganismi e differenze significative sono state riscontrate nel microbiota di soggetti normopeso rispetto a soggetti obesi.
Qual è quindi il legame tra alimentazione, microbiota ed obesità?
Uno studio condotto molto recentemente ha dimostrato che un'alimentazione ad alto contenuto di grassi può modificare la composizione della flora intestinale. Analizzando topi sottoposti ad una dieta al 45 % di grassi per 3, 6, 12 e 16 settimane, gli autori hanno osservato un incremento del peso corporeo e del tessuto adiposo particolarmente importante dopo 12 settimane. Più precocemente, dopo 3 settimane, si verifica un aumento dei marcatori dell'infiammazione e un'alterazione del metabolismo del tessuto adiposo suggerendo che una dieta iperlipidica determina cambiamenti nell'espressione di geni chiave coinvolti nell'infiammazione, nell'ossidazione degli acidi grassi e nella lipogenesi.
Analizzando la composizione della flora intestinale dei topi sottoposti all'esperimento, è stata osservata una marcata riduzione del numero di batteri di diverse specie, in particolare Akkermansia muciniphila che diminuisce di circa 10000 volte rispetto al valore iniziale. Ciò che sorprende è che a una riduzione dei livelli di Akkermansia muciniphila corrisponde una diminuzione dei livelli dei parametri coinvolti nell'ossidazione degli acidi grassi e un incremento dei marcatori di infiammazione, di sintesi dei lipidi, di insulino-resistenza, di rischio cardiovascolare e di adiposità.
Oltre alla quantità dei lipidi somministrata, sembra importante anche la qualità. Nei topi sottoposti ad un regime alimentare ricco di grassi animali i livelli di Akkermansia muciniphila si riducono significativamente, mentre in quelli nutriti con una dieta ricca di olio di pesce i livelli di questo ceppo batterico aumentano in modo drastico.
Questi dati supportano altre evidenze presenti in letteratura sottolineando l'importanza e la necessità di chiarire i meccanismi che causano le alterazioni a livello della flora intestinale in caso di obesità. Allo stesso tempo occorre verificare se tali risultati sono trasferibili all'uomo e se specifici approcci dietetici e alimenti probiotici possano essere utilizzati per modificare favorevolmente il microbiota intestinale, in modo tale da ridurre o contenere il processo infiammatorio a carico del tessuto adiposo prevenendo l'alterazione del metabolismo e l'aumento di peso correlati all'obesità."

Dott.ssa Chiara Ferretti

Fonti:
Akkermansia muciniphila inversely correlates with the onset of inflammation, altered adipose tissue metabolism and metabolic disorders during obesity in mice, M. Schneeberger, A. Everard, A. G. Gómez-Valadés, S. Matamoros, S. Ramírez, N. M. Delzenne, R. Gomis, M. Claret, P. D. Cani, Sci Rep, 2015 Nov 13;5:16643.


La spesa di Febbraio

Febbraio è il mese del Carnevale! Tra frappe e castagnole non dimentichiamo di portare in tavola alimenti sani, di stagione e magari a km 0! Ecco i suggerimenti su cosa acquistare.